La responsabilità penale dell’amministratore di fatto nei reati fallimentari 

crisi fiscale

I soggetti attivi dei reati di bancarotta sono l’imprenditore dichiarato fallito e, per effetto dell’estensione operata dall’art 223 e seguenti Legge Fallimentare, finanche gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite.

Inoltre, secondo copiosa giurisprudenza, anche la figura dell’amministratore di fatto – delineata dall’art 2639 Codice Civile e originariamente pensata per i reati societari, ma poi estesa ad opera della giurisprudenza a molte altre fattispecie di reato – appartiene all’alveo dei possibili soggetti attivi dei reati di bancarotta. 

Secondo l’art 2639 Codice Civile “Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Da qui la frequente contestazione dei reati fallimentari all’amministratore di fatto, sia a titolo di autore principale del reato che a titolo di concorrente nel reato commesso da altro soggetto, tipicamente l’amministratore di diritto della società dichiarata fallita.

La difficoltà che emerge dalla pratica è quella di determinare quelle circostanze di fatto in presenza delle quali si può dimostrare quell’esercizio continuativo e significativo di attività gestorie idoneo a poter qualificare il soggetto in questione come amministratore di fatto della società fallita. 

Ebbene, questo snodo problematico è stato affrontato da una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Sezione Quinta Penale, numero 12085/2021), che ha evidenziato come “la ricostruzione del profilo di amministratore di fatto debba condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori, individuati non soltanto rapportandosi alle qualifiche formali rivestite in ambito societario ovvero alla mera rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (ex multis Sez. 5, n.41793 del 17/06/2016, Rv. 268273) bensì sulla base delle concrete attività dispiegate in riferimento alle società oggetto d’analisi, riconducibili — secondo validate massime di esperienza — ad indici sintomatici, quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie d’impresa e nelle fasi nevralgiche dell’ente economico”.

La sentenza in commento prosegue chiarendo che “La prova della posizione di amministratore di fatto, esige, pertanto, l’accertamento di elementi che evidenzino l’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualunque fase della sequenza produttiva, organizzativa o commerciale dell’attività sociale, ad esempio i rapporti con i dipendenti, i clienti o i fornitori, ovvero in ogni settore gestionale dell’attività dell’ente, sia quest’ultimo produttivo, amministrativo, aziendale, contrattuale o disciplinare”.

La sentenza in commento, delineati in concreto gli indicatori dell’amministrazione di fatto, si sofferma finanche sul rapporto tra la responsabilità penale dell’amministratore di fatto e quella dell’amministratore di diritto chiarendo che la responsabilità del primo “ben può coesistere con l’esercizio dei poteri propri dell’amministratore di diritto, ove si risolva in una cogestione coordinata dell’organismo societario. In altri termini, la effettiva gestione da parte dell’amministratore formale non esclude la concorrente responsabilità del co-amministratore di fatto, ove sia comprovata una gestione paritetica”.

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