Il Welfare State e la sua storia

welfare state o stato sociale

Lo Stato Sociale, o Welfare State, nell’odierna accezione, rappresenta un complesso di normative e politiche economiche atte a ridurre la disuguaglianza dei cittadini degli Stati di diritto, la protezione e l’assistenza di alcune categorie di individui che, per nascita o situazioni contingenti, necessitano di aiuti per la loro sopravvivenza e benessere. Questo di concretizza in differenti politiche e misure, tra cui i sussidi per situazioni di incapacità lavorativa o disoccupazione, la previdenza sociale, i trasferimenti in denaro a copertura dei periodi di esclusione dal lavoro, l’erogazione di servizi come la scuola o la sanità pubbliche, agevolazioni fiscali, etc. 

Ancora oggi lo Stato sociale non ha assunto rilevanza concreta e applicazione in tutti gli Stati democratici e non assume pari importanza e pari grado di intervento nell’economia. La maggiore applicazione e riconoscimento del ruolo e dell’importanza del Welfare si è andata a delineare, nei paesi di prima industrializzazione, dopo il secondo conflitto mondiale, nel momento in cui si è palesata l’esigenza di assicurare la sopravvivenza e la crescita in contesti di carestia. In molti stati la guerra aveva, infatti, determinato la perdita dei mezzi di sussistenza delineando la necessità d’implementare azioni attea a combattere la disoccupazione, la malattia, le problematiche legate all’infanzia, alla vita coniugale, all’invalidità. 

Si evidenzia che la pretesa di estendere a tutta la popolazione il beneficio della protezione statale è stato uno dei motivi che ha reso sempre più difficoltoso e meno efficace l’intervento dello stato assistenziale in termini di redistribuzione, contestualmente alla crescita della spesa pubblica per le politiche di Welfare. A partire dagli anni ’80 il calo del tasso di natalità (e di mortalità) nei paesi di prima industrializzazione, unito alla costante crescita della spesa pubblica non associato ad un coerente aumento del PIL hanno determinato un calo del welfare (tanto che si è arrivati a parlare di “crisi del Welfare”). Questa contrazione è stata connessa anche ad altre criticità così come l’aumento della domanda e degli sprechi, l’inefficienza della burocrazia, la difficoltà per le classi meno abbienti di beneficiare effettivamente degli obiettivi redistributivi, l’incremento del disavanzo e l’avvento di personalità politiche come Ronald Reagan e Margaret Thatcher rispettivamente alla guida di USA e UK, che hanno determinato la svolta neoliberista nel blocco occidentale e in molti paesi in via di sviluppo sotto l’egida del modello capitalista. 

Tale svolta, incentivata anche dall’affermazione delle scuole neoliberiste e monetariste di Chicago, ha contribuito a porre in discussione l’efficacia della redistribuzione basata sull’esclusione della dimensione dell’equità in favore dell’efficienza e di un qualsiasi rapporto tra etica ed economia. Tale aspetto ha portato ad identificare la spesa pubblica per il sociale come una “voce di consumo” piuttosto che di investimento (ad esempio in capitale umano, ricerca, sanità). 

Del resto, lo stesso modello di Welfare a cui ogni Stato o gruppo di Stati può far riferimento dipende, a sua volta, dall’impianto ideologico che la classe dirigente in carica desidera mantenere in auge oltre che alla priorità “programmatiche” dettate in sede di elezioni. 

Le diverse forme di Welfare State

Risulta, così, necessario distinguere tra le diverse forme di Stato Sociale le quali, a loro volta, si differenziano per basi ideologiche e finalità. In particolare, in un regime liberale, il primo passo è l’accertamento di uno stato di bisogno, a cui segue l’affermazione del principio dell’eligibility. In questo contesto i costi del Welfare sono più contenuti, ma si riducono anche gli obiettivi raggiungibili in termini di riduzione della povertà e dell’assistenza dei bisognosi. 

Di contro si pone il regime social-democratico, o in estremo il regime socialista, che prevede maggiore attenzione all’equità. Questo annovera e propugna il diritto all’assistenza derivante dal semplice fatto di godere della cittadinanza, senza dimostrazione alcuna di uno status di bisogno, presupponendo un’uguaglianza di status anziché un dualismo forte [così come avviene nei regimi liberali] oltre che una sicurezza sociale estesa a ogni strato della popolazione. In questo regime, l’obiettivo è ridurre le disuguaglianze e gli squilibri economici garantendo uno standard di vita più alto per tutti.

Per quanto concerne i regimi conservatori o corporativi, la possibilità di ricevere assistenza e assicurazione è legata alla professione, nonché allo status di lavoratore, e prevede la sottoscrizione di assicurazioni sociali obbligatorie analoghe a quelle introdotte da Bismarck negli anni ’80 dell’800. Questa triplice classificazione deriva dagli studi effettuati dal sociologo danese G. Esping-Andersen (“Three worlds of welfare capitalism”, 1990). Recentemente sono stati introdotti nel modello degli elementi aggiuntivi ed importanti come la tutela della salute psichica oltre che quella fisica, la sostenibilità ambientale, la promozione della cultura e del tempo libero, la lotta all’inquinamento e lo sviluppo tecnologico. In questo ambito l’elemento tecnologico diventa importante in quanto mezzo per rimediare agli elevati costi delle inefficienze tipiche della burocrazia, come lo snellimento delle pratiche e l’erogazione di servizi per via telematica, che potrebbero delineare un nuovo modello di welfare con la ridefinizione di costi e benefici. 

Negli ultimi anni il dilemma emergente è connesso all’identificazione delle cause della  crisi del Welfare. Questa può essere imputabile alla sua eccessiva espansione, che ha causato l’aumento della spesa e del disavanzo a livelli insostenibili, oppure alla sua ingiustificata riduzione delineatasi in periodi di crisi economica [questa ha provocato effetti ciclici peggiorando drasticamente le condizioni di vita di molti senza proporre alternative valide in termini sociali ed economici]. 

Si denota che sia durante che dopo la crisi del 2008, le criticità che avevano caratterizzato il welfare dagli anni ‘80 si sono acuite a causa della recessione, dell’aumento della disoccupazione e della contrazione della crescita. La situazione ha riguardato pressoché tutti i paesi, incidendo sulla finanza pubblica e sui ceti medi che la sostenevano in proporzione maggioritaria. A questo è seguita una tendenza generalizzata a ridurre il ruolo dell’intervento statale per far fronte al debito crescente e soddisfare i parametri imposti da UE, imponendo tagli alla spesa e ridefinendo le politiche, cercando di evitare gli sprechi di risorse.
I parametri di Maastricht, o meglio il Patto di Stabilità e Crescita, stipulato nel 1997 ed entrato in vigore nel 1999, con l’introduzione della moneta unica, si concretizza come rafforzamento delle politiche di vigilanza sui debiti pubblici per favorire la continuità di rigore di bilancio nell’Unione. 

Questo si esplica, secondo due principali direttrici [o parametri] obbligatori per i paesi che desiderano servirsi della moneta unica ed usufruire di tutti i vantaggi di un mercato unico: 

  • un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL (deficit/PIL <3%);
  • un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL. 

La procedura per deficit eccessivo (PDE) si divide – a sua volta – in tre fasi dette di avvertimento, raccomandazione e sanzione, in base alla gravità e alla durata dell’infrazione. 

Di seguito sono riportati due grafici relativi alla spesa pubblica e al debito dei paesi dell’Area Euro e UE. Le rappresentazioni consentono un confronto statico a distanza di 10 anni dall’anno subito successivo alla crisi del 2008, e rispetto l’anno scorso, 2019. Valori da rapportare ai parametri di Maastricht e al PSC. 

Negli anni immediatamente successivi alla crisi, anche gli Stati considerati virtuosi sono “usciti” dai parametri del PSC per poi rientrarci successivamente con importanti sforzi finanziari e fiscali. Numerose critiche sono state rivolte all’eccessiva rigidità del patto, proprio in funzione del fatto che non ottempera gli effetti (di medio e lungo termine) del ciclo e della definizione di un orizzonte ristretto esclusivamente al bilancio dell’anno in corso. Tali connotati rendono materialmente impossibile concepire e mettere in pratica delle riforme, arrivando alla risoluzione di periodi di crisi profonda nel breve termine, o di crisi pro-cicliche. 

Inevitabilmente la spesa pubblica nei paesi dell’UE, comprendente le politiche di Welfare, ha risentito in modo netto degli effetti della crisi del 2008 (e del 2011 in Italia) ed è stata caratterizzata da un’ampia revisione (spending review) con l’obiettivo di migliorarne l’efficacia, l’efficienza, e la riduzione di sprechi. 

Verosimilmente il processo sarebbe forse dovuto iniziare prima e in una modalità diversa rispetto a quella di massima urgenza messa in atto negli anni post crisi. Le azioni dovrebbero essere attuate in modo da non penalizzare alcuni aspetti del welfare che proprio nei periodi di crisi andrebbero sostenuti. 

In Italia, ad esempio, molti di questi tagli effettuati su Enti territoriali e Ministeri si sono riflessi sui servizi (minori, peggiori) erogati ai cittadini, e hanno decretato un peggioramento generalizzato dell’azione dell’apparato burocratico. 

Dall’altro lato, si sono verificate delle circostanze che hanno contribuito ad aumentare le disuguaglianze e oltre che la richiesta di servizi. Questo è avvenuto in concomitanza di una riduzione della disponibilità di risorse che doveva finanziarli, accompagnata da politiche di trasferimenti incoerenti e motivate dall’”istante politico” vissuto dal nostro paese a partire dal governo Monti in poi. 

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