Gli IDE

IDE Investimenti esteri diretti

Negli anni, il concetto di IDE è stato oggetto di definizioni eterogenee e continue revisioni, sia in termini concettuali, che operativi. Tali revisioni sono principalmente volte all’armonizzazione delle definizioni, tramite l’utilizzo di standard internazionali, necessari alla compilazione di statistiche nazionali sugli IDE. Gli IDE rappresentano una specifica tipologia di investimenti realizzati da un individuo appartenente ad una certa economia (investitore diretto estero o foreign direct investor), a favore di un’impresa localizzata in un’economia diversa dalla propria (impresa oggetto di investimento diretto o direct investment enterprise). Essi si differenziano dagli investimenti di portafoglio, in quanto caratterizzati da un interesse duraturo e volti alla creazione di una relazione a lungo termine, da parte dell’investitore diretto, il quale è, infatti, dotato di potere decisionale significativo sulla gestione dell’impresa oggetto di tale investimento. Al fine di costituire un interesse duraturo si fa riferimento ad un criterio oggettivo, che prevede il possesso, da parte dell’investitore, di almeno il 10 per cento del potere di voto nell’impresa partecipata. Questa modalità di ottenimento del potere di voto viene definita diretta. In alternativa, il potere di voto può essere ottenuto in modo indiretto, ossia tramite l’acquisizione del potere di voto di un’impresa, che a sua volta detiene il potere di voto in un’altra affiliata. Tale definizione di IDE fa riferimento a quella del Fondo Monetario Internazionale nella sesta edizione del Balance of Payments Manual e dell’OCSE.  (BPM6 2009 e OECD 2008).

Le parti coinvolte negli IDE sono principalmente due: l’investitore e l’impresa destinataria. Possono essere investitori un individuo o un gruppo di individui, una società pubblica o privata (con o priva di personalità giuridica) o un gruppo di imprese, un ente governativo, un trust o altre organizzazioni sociali, o ancora una combinazione tra le precedenti categorie.  L’impresa destinataria rappresenta l’altro attore coinvolto, essa subisce una modifica nei suoi asset decisionali più o meno significativa, in base alla quota detenuta dall’investitore. Un IDE si verifica ogniqualvolta si realizza la soglia minima di partecipazione all’interno dell’impresa destinataria. I flussi di IDE sono composti da varie tipologie di asset finanziari: partecipazioni al capitale sociale dell’impresa, utili non distribuiti all’interno delle affiliate, fusioni e acquisizioni transnazionali e prestiti interaziendali. Pertanto, si può affermare che le imprese multinazionali possono ricorrere a tali investimenti, al fine di acquisire o controllare un’affiliata estera. A differenza dei flussi, definiti dall’ammontare di investimenti realizzati in un dato periodo, lo stock di IDE è rappresentato dal valore totale di attività estere accumulate fino ad un certo istante temporale. 

Le affiliate, ossia le imprese destinatarie degli IDE, si possono suddividere in base alla percentuale di azioni detenute da parte dell’investitore, oppure in base la presenza o meno di personalità giuridica. La prima categoria di imprese è rappresentata dalle società controllate (subsidiary), imprese dotate di personalità giuridica, nelle quali l’investitore estero detiene – direttamente o indirettamente –  più del 50 per cento del capitale sociale. Tale percentuale di voto conferisce all’investitore il potere di nominare o di rimuovere la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione. Nella seconda categoria, invece, sono incluse le società consociate (associate), anch’esse dotate di personalità giuridica nelle quali l’investitore estero detiene tra il 10 e il 50 per cento del capitale sociale. Infine vi sono le filiali, imprese prive di personalità giuridica, detenute interamente o congiuntamente dall’investitore diretto estero.

IDE e forza lavoro

Numerosi studi empirici sono concordi sul fatto che le imprese multinazionali utilizzano una tecnologia superiore e sono generalmente più produttive delle altre imprese. La maggiore produttività, che consente loro di competere efficientemente in mercati esteri, superando i costi di coordinazione tra i vari Paesi, si accompagna ad un maggiore salario (wage premium), rispetto alle imprese che operano nel contesto locale. Ciò avviene, non solo nei Paesi in via di sviluppo, su cui la maggior parte della letteratura esistente si concentra, , ma anche nei Paesi già sviluppati e ad alto salario. Un esempio di quanto affermato si può trovare nello studio di Blomström (1983) sulle industrie manifatturiere messicane, dal quale emerge che le imprese straniere pagano salari circa il 25 per cento più alti rispetto alle imprese locali. Vi sono inoltre diversi studi che si sono interrogati sulla motivazione alla base del pagamento di un salario più elevato, prendendo come giustificazione non solo la produttività, ma anche altre ragioni. A riguardo, Findlay (1978) ha sviluppato uno specifico modello che prevede che le imprese straniere paghino salari più elevati per impieghi appartenenti alla stessa categoria, “al fine di avere delle buone relazioni pubbliche”. I lavoratori preferirebbero lavorare nelle imprese locali, perché percepite più stabili, pertanto, è ragionevole pensare che i lavoratori debbano essere compensati con salari più alti affinché possano superare questa preferenza. Un’ulteriore spiegazione dell’esistenza di un wage premium prevede che le imprese estere paghino un premio per ridurre il turnover dei lavoratori. Essendo, infatti, la forza lavoro impiegata dalle multinazionali altamente qualificata, il trasferimento di personale alle imprese fornitrici consente il trasferimento di nuove skills all’interno di quest’ultime. Una quarta ragione considera la limitata conoscenza da parte delle imprese straniere del contesto locale nel quale esse si trovano. Per questa motivazione l’impresa paga salari più elevati, con l’obiettivo di attrarre i lavoratori migliori (high skilled workers), a differenza delle imprese locali, non affette da questa asimmetria informativa. 

Esistono, però, anche conseguenze negative. Ad esempio, a fronte del pagamento di salari più elevati da parte delle multinazionali straniere, le imprese locali potrebbero vedere la loro offerta di lavoro ridursi. Ciò indurrebbe loro ad incrementare anche i propri salari, generando un aumento del salario medio di mercato. 

Pittiglio, Reganati e Sica (2012) descrivono la relazione tra gap tecnologico e spillovers salariali come non lineare. In particolare, per imprese dello stesso settore, vengono evidenziati spillovers positivi a fronte di un elevato  gap tecnologico, poiché le imprese concorrenti sono spinte a sviluppare una maggiore efficienza per mantenersi competitive sul mercato. Al contrario, per le imprese fornitrici/clienti gli spillovers risultano positivi se il gap è ridotto e negativi se è elevato: qualora l’impresa fornitrice/cliente abbia una tecnologia compatibile con quella della multinazionale essa cresce e si sviluppa con questa anche dal punto di vista dei salari, viceversa un forte gap tecnologico non consente l’interazione tra le due. (Piscitello 2006; Robert Alan 2004)

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