Reato di ricorso abusivo al credito: è necessario il fallimento?

abuso di ricorso fallimentare

Il reato di ricorso abusivo al credito è previsto e punito dall’articolo 218 Legge Fallimentare (Regio Decreto 267/1942), secondo cui  “Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni”.

Seguono gli artt. 222 e 227 Legge Fallimentare che, rinviando all’art. 218, prevedono rispettivamente, la responsabilità del socio illimitatamente responsabile di società in nome collettivo o in accomandita semplice, nonché dell’institore.

Il reato in commento prevede una condotta di “dissimulazione” dell’insolvenza o del dissesto, la quale – comprensiva anche del semplice silenzio sulla reale situazione dell’impresa –  deve determinare causalmente la concessione del credito, o la conferma del credito già erogato. Il delitto non sarebbe invece integrato quando possa ritenersi che il credito sarebbe stato ugualmente concesso o prorogato, pur fornendo all’istituto di credito tutte le informazioni del caso sul reale stato dell’impresa.

Un aspetto critico di questa disposizione è rappresentato dalla clausola «anche al di fuori dei casi previsti negli articoli precedenti» (vale a dire nei reati di bancarotta previsti e puniti dalle norme precedenti) introdotta dalla Legge 262/2005; la nuova formulazione è stata spesso interpretata nel senso che la punibilità del ricorso abusivo al credito non sia condizionata alla dichiarazione di fallimento come invece accade nei reati di bancarotta. In altre parole, dottrina e giurisprudenza si sono più volte interrogate sull’eventualità che, alla luce della nuova formulazione, il delitto in commento possa o meno essere commesso anche dall’imprenditore non fallito, ovvero da amministratori, direttori generali e liquidatori di società non fallite, così distinguendosi radicalmente dai reati di bancarotta configurabili, invece, solo nel caso in cui intervenga la dichiarazione di fallimento.

Ebbene, sul punto si è pronunciata la Quinta Sezione della Corte di Cassazione che, con sentenza 24/06/2019 n. 36985, ha chiarito che il delitto di ricorso abusivo al credito, anche dopo la sua modifica per effetto dell’art. 32, comma 1 della Legge 262/2005, è punibile solo laddove intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che è proprio la declaratoria di fallimento a rendere concreto ed attuale il danno cagionato, per effetto della concessione di nuovo credito, a coloro nei cui confronti l’imprenditore era già debitore.

La logica sottostante la pronuncia della Suprema Corte pare quella di valorizzare il fatto che il reato  di ricorso abusivo al credito presuppone, al pari dei reati fallimentari in senso stretto, una situazione di insolvenza o di dissesto dell’impresa, nella quale il ricorso al credito ben potrà  comportare un danno non solo per chi eroga il credito, ma anche per gli altri creditori, laddove l’operazione consenta la prosecuzione dell’impresa nonostante l’avvenuta maturazione di uno squilibrio finanziario o patrimoniale suscettibile di aggravamento, con la conseguenza che il fatto offenderebbe gli interessi dell’intero ceto creditorio e non soltanto di chi conceda il finanziamento; ciò in quanto,  a seguito dell’assunzione di un ulteriore debito, ciascun creditore preesistente all’erogazione del credito, dovendo concorrere finanche con il soggetto che lo  ha erogato, verrà soddisfatto in minor misura. 

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