La responsabilità civile
La legge Gelli-Bianco, al suo art. 7, prevede una differenziazione – in relazione alla responsabilità civile – tra la posizione della struttura sanitaria e quella dell’esercente la professione sanitaria.
In particolare, la struttura, che sia essa pubblica o privata, che si avvalga di operatori sanitari, che siano questi dipendenti o meno della struttura stessa, risponde delle loro condotte dolose o colpose ai sensi degli articoli 1218 c.c. e 1228 c.c.
La struttura, quindi, risponderà dei fatti illeciti posti in essere dagli esercenti la professione sanitaria secondo le regole della responsabilità contrattuale. Ciò comporta principalmente tre importanti conseguenze:
– Prescrizione: il termine prescrizionale sarà di anni 10;
– Onere probatorio: il paziente danneggiato dovrà solo provare il titolo da cui deriva l’obbligazione mentre la struttura dovrà fornire la prova del cd. esatto adempimento o, in alternativa, dell’inadempimento alla stessa non imputabile;
– Danno risarcibile: in tema di danni cagionati con colpa, il danno risarcibile sarà limitato al danno che poteva prevedersi al tempo in cui l’obbligazione contrattuale è sorta.
Differente la previsione relativa al professionista esercente la professione sanitaria che, invece, risponderà delle proprie condotte secondo le regole della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. anche in questo caso le conseguenze sono di grande rilevanza:
– Prescrizione: il termine prescrizionale sarà di anni 5;
– Onere probatorio: questo grava sul paziente danneggiato che dovrà provare (e non “allegare”) il fatto illecito, il danno subito, l’elemento soggettivo di dolo o colpa e il nesso tra la condotta posta in essere dal professionista e l’evento;
– Danno risarcibile: vale la pena precisare che, ai soli fini della determinazione del danno, la legge Gelli-Bianco impone al Giudice di tener conto del grado di omessa adesione della condotta del professionista alle linee guida e alle buone pratiche mentre, ai soli fini della quantificazione del danno, la medesima legge prevede che il Giudice faccia riferimento alle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni private.
Quanto sopra esposto non preclude, tuttavia, la possibilità della struttura sanitaria di rivalersi nei confronti del professionista; l’art. 9 della legge Gelli-Bianco prevede, infatti, che l’azione di rivalsa possa essere esercitata: i) nei soli casi di dolo e colpa grave, ii) a condizione che l’esercente la professione sia stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale volta al risarcimento del danno, iii) solo in momento successivo all’avvenuto risarcimento ed entro 1 anno dall’avvenuto pagamento, a pena di decadenza.
Il nesso di causalità: le varie teorie
Il principale scoglio, nonché il più difficoltoso onere probatorio, è rappresentato dalla prova del nesso eziologico tra il danno e l’evento.
Una rapida analisi delle ultime pronunce giurisprudenziali permette portare all’evidenza che la questione solitamente analizzata dalle magistrature penali è quella relativa alla sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta, che sia questa attiva od omissiva, dell’esercente la professione sanitaria e il verificarsi dell’evento.
Il legame eziologico tra la condotta e l’evento rappresenta una condizione imprescindibile per attribuire all’agente il fatto illecito.
L’accertamento del nesso eziologico è funzionale all’attribuzione ad un soggetto, dal punto di vista oggettivo, della responsabilità per un fatto da lui posto in essere.
Il fondamento normativo del nesso di causalità si ritrova nell’art. 40 c.p. secondo il quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Appare quindi chiaro che l’accertamento del rapporto di causalità rappresenti un onere di non facile assolvimento, soprattutto nel diritto penale.
Sul tema, in particolare in relazione alla responsabilità penale colposa medica, si sono espressi numerosi autori.
Secondo alcuni, nell’ambito della responsabilità medica, non si potrebbe far riferimento alla teoria, ritenuta pacificamente il fondamento dell’art. 40 c.p., della cd. conditio dine qua non; secondo cui la condotta umana diviene causa tutte le volte in cui rappresenti una delle condizioni che concorrono alla produzione dell’evento.
Secondo la teoria della conditio sine qua non “è causa dell’evento qualsiasi condizione del suo verificarsi, che non possa essere mentalmente eliminata, senza che venga meno l’evento stesso, con la sua concreta fisionomia”.
La problematica sorge nel momento in cui, già dalla prima lettura della definizione in analisi, emerge chiaramente che qualsiasi condizione dell’evento assume il rango di causa di esso: tutte le concause, che siano esse preesistenti, concomitanti o sopravvenute, sono considerate equivalenti nella produzione dell’evento.
Per accertare in concreto il nesso, sempre secondo la teoria in commento, è necessario l’utilizzo del metodo sublata causa, tollitur effectus: la condotta è causa dell’evento se, senza di essa, l’evento non si sarebbe verificato.
Al contrario, se l’evento si sarebbe comunque verificato, allora la condotta non è causa di esso: la teoria presentava problematiche in relazione alle fattispecie colpose in quanto permetteva una sorta di “regresso all’infinito”.
Si inizia quindi a formare la necessità di restringere l’ambito della responsabilità e nasceva la teoria della causalità adeguata mediante la quale si escludono dal novero di fatti attribuibili al soggetto agente, tutti quegli avvenimenti che si discostano da ciò che normalmente accade (dal cd. id quod plerumque accidit).
Ai fini della sussistenza del nesso di causalità, quindi, è necessario che l’agente abbia causato l’evento con un’azione proporzionata (e quindi adeguata) e idonea a determinare l’effetto sulla base dei criteri di normalità valutati alla stregua della comune esperienza ed escludendo, di conseguenza, gli effetti straordinari e atipici.
Anche questa seconda teoria, però, non risultò esente da critiche in ragione degli eccessivi limiti posti alla responsabilità penale: un evento classificabile come improbabile avrebbe sempre determinato l’esclusione della riconducibilità dello stesso alla condotta dell’agente.
In un tentativo di migliorare la precedente teoria, Antolisei sviluppava poi la teoria della cd. causalità umana secondo la quale possono essere ricondotti alla condotta dell’agente solo gli eventi che il medesimo può controllare grazie alla sua conoscenza e volontà con l’esclusione, pertanto, dei soli eventi eccezionali, del tutto imprevedibili ed indipendenti dal raggio di azione dell’uomo; insomma, di tutte quelle cause da sole sufficienti a determinare l’evento.
Seguiva poi la cd. teoria dell’imputazione oggettiva secondo la quale “un evento può dirsi causato da un certo comportamento, quando tale comportamento ha cagionato un aumento del rischio che l’evento si verificasse”.
Dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 1411 del 29/04/1991, veniva invece adottato – al fine dell’accertamento del nesso causale – il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, teoria secondo la quale, per affermare l’esistenza del nesso eziologico fra una condotta ed una conseguenza, è necessaria la previa conoscenza della relazione tra gli accadimenti che è fornita dalle leggi scientifiche.
Concludendo, secondo questa ultima teoria, l’azione sarebbe causativa dell’evento quando, sulla base della migliore scienza ed esperienza di quel preciso momento storico, l’evento è conseguenza certa, o comunque molto probabile, dell’azione stessa, in quanto senza di essa l’evento non si sarebbe verificato.
Una recentissima pronuncia
Un’ultima precisazione dei confini e dei limiti della responsabilità medica ci viene fornita da una recentissima sentenza della Corte di Cassazione del 3/2/2021 n.4063: secondo gli ermellini i giudici, chiamati a decidere sulla sussistenza di responsabilità del sanitario per omicidio o lesioni colpose, devono necessariamente verificare l’effettiva esistenza di linee guida, stabilire il grado della colpa tenendo conto del discostamento da tali linee e stabilire la qualità della colpa (imprudenza, negligenza o imperizia) ed il suo grado.
L’errore, da solo considerato, non può tradursi nell’immediato riconoscimento della responsabilità penale: deve, invece, necessariamente farsi luogo ad un ragionamento controfattuale che deve essere svolto dal Giudice in riferimento alla specifica attività richiesta dal sanitario e che si deve considerare idonea se realizzata a scongiurare l’evento lesivo o a ritardarlo.
Avv. Giulia Invernizzi