Diritto del lavoro e digitalizzazione

L’evoluzione digitale della società traina con sé, inevitabilmente, un cambiamento nel mondo del lavoro e dell’economia.

Nello specifico, si ravvisano modificazioni sui modelli occupazionali e quindi sulle condizioni professionali, in particolare in merito alla tutela del lavoratore. Il fenomeno globale della digitalizzazione e l’emergere di nuovi modelli economici, come quello della sharing economy, incentivano l’attività del legislatore e dei sindacati europei, al fine di inquadrare legittimamente l’evolversi di queste nuove realtà.

Da un lato abbiamo la completa ridefinizione dei confini dell’impresa e dall’altro un cambiamento della dinamica del mondo del lavoro. 

Il modello economico della sharing economy incentiva la creazione di mercati, ma richiede la doverosa disciplina di due aspetti: il primo attiene all’esigenza di tutela dei lavoratori, come l’inquadramento contrattuale dei lavoratori, il controllo e la privacy nel rapporto di lavoro e i diritti di partecipazione dei lavoratori. Il secondo aspetto concerne un’esigenza di tutela della concorrenza e del mercato

I lavoratori che utilizzano una piattaforma sono subordinati o autonomi? 

Quello della qualificazione – autonoma oppure subordinata – del rapporto dei lavoratori delle digital platforms è esercizio dei poteri datoriali nell’ambito della piattaforma. 

Emblematiche sono le contrastanti pronunce, nazionali e straniere, relative ai riders di Foodora o ai drivers di Uber, con riferimento ai quali ultimi il giudice inglese ha sostenuto che la piattaforma dovesse essere qualificata in analogia ad un’azienda privata di trasporto (quindi non un mero algoritmo), inquadrando i lavoratori di Uber “i drivers” nella categoria dei “workers”, riconoscendogli perciò dei diritti sia economici che in tema di orario lavorativo. Tali diritti però, non sono paragonabili a quelli degli employees, che sono certamente più ampi.

L’assenza di un sistema di protezione ad hoc, idoneo a tutelare i c.d. lavoratori 4.0, dipende principalmente dall’impossibilità di inglobare i vari operatori delle digital platforms in un’unica categoria contrattuale stante l’assenza di univoci fattori identificativi: l’unico elemento che li accomuna è la libertà di decidere se e quando svolgere la prestazione lavorativa. Anche tale elemento, però, talvolta viene meno; l’autonomia dei gig workers è infatti spesso compressa in ragione dell’implicita accettazione delle regole che vigono nella digital platform, cui gli operatori sono obbligati ad attenersi con riguardo sia agli aspetti economici, che alle modalità di esecuzione della prestazione.

I numeri della Gig Economy in Italia.

“Il lavoro sulle piattaforme si è notevolmente diffuso anche nel nostro Paese. I gig workers italiani, in base ad una nostra indagine, sono 213.150. Il problema è che il 42% di questi lavorano senza un vero e proprio contratto e il 19,2% con un contratto di collaborazione”.

È quanto ha dichiarato Paola Nicastro direttore generale dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, nel corso dell’audizione alla Commissione Lavoro della Camera dei deputati.

L’indagine Inapp PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey) è basata su un campione di 45mila individui residenti in Italia fra i 18 e 74 anni e rappresenta la prima mappatura della gig economy, un modello molto eterogeneo, difficile da tracciare, basato sull’esternalizzazione delle mansioni ma che ha un trend occupazionale crescente” (https://www.startmag.it/innovazione/gig-economy-chi-sono-e-quanti-sono-in-italia-i-lavoratori/).

Come intervenire al fine di garantire un adeguato livello di concorrenza sul mercato? Questa è una bella domanda.

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